sabato 29 ottobre 2011

Intervista a Francesco Jodice

Introduzione e intervista di Dino del Vescovo
Dal Lucca Photo Fest 2011, per il quale riceve il premio “Nikon TAF per la Fotografia Italiana”, al Museo Del Prado di Madrid. Sono queste le cornici di fama internazionale su cui possono contare i lavori di Francesco Jodice, fotografo e artista di origini napoletane specializzato nel raccontare contesti e paesaggi sociali attraverso immagini, video e scrittura. La sua natura di fotografo è piuttosto insolita, tanto quanto nette sono le sue posizioni nell'interpretare il ruolo dell'artista contemporaneo e le idee alla base dei suoi lavori.
Dal banco ottico alla ripresa video, passando per la macchina a pellicola usa e getta e la fotografia tramite cellulare, Francesco Jodice prova interesse per qualsiasi forma di espressione, svelando però una decisa avversione per la fotografia di reportage, considerata uno dei più grandi equivoci ed errati punti di vista dei nostri tempi. Ama profondamente la lettura, i saggi in particolare, e si definisce un divoratore insaziabile di materiale culturale video e videoludico, in particolare di serie televisive straniere e di videogiochi di qualità. Alcuni di questi, soprattutto se con una vera e propria storia al loro interno, li definisce veri e propri romanzi. Colleziona fumetti della Marvell e, se potesse, giocherebbe a calcio più di quanto i suoi impegni non gli consentano. Tifa Inter, fa nuoto, viaggia ed esplora continuamente le città.


Partiamo dal Lucca Photo Fest 2011 e dal premio “Nikon TAF per la Fotografia Italiana”. Cosa pensi di questo riconoscimento?
Il premio che Nikon ha conferito al mio progetto mi gratifica enormemente, ancor di più perché proviene da una casa il cui prestigio in ambito fotografico è riconosciuto a livello mondiale. Ed è curioso notare come un brand giapponese abbia assegnato il premio “Nikon TAF per la Fotografia Italiana” a un lavoro sul Giappone.

Perché il progetto “Tokyo Baburu”? Perché hai deciso di partecipare all'evento con questa mostra?
A partire dal 1999, anno in cui ho insegnato a Tokyo, ho avuto la possibilità di frequentare in modo quasi ossessivo alcuni paesi del Giappone. Il Lucca Photo Fest, d'altronde, propone per l'edizione 2011 il tema “Sguardi di Oriente”. Alla gentile richiesta avanzata dagli organizzatori dell'evento, di partecipare con un progetto sul Giappone, non ho quindi avuto la minima esitazione.

Perché ossessiva?
Mi riferisco all'impatto che la cultura giapponese ha avuto su di me, in quanto ricercatore e artista. Trovo che il Giappone, e più in particolare Tokyo, alla fine degli anni '90, sia stato una sorta di laboratorio sperimentale per nuovi paesaggi sociali.

Che significato ha il termine “baburu”?
Il termine “Baburu” significa “bolla” e nel contempo, per i giapponesi, indica la catarsi culturale del paese. La baburu richiama infatti alla memoria la grande crisi economica del 1991, momento storico in cui il Giappone scoprì la disoccupazione e vide rallentarsi l'incredibile sogno di una nazione che, dall'esplosione delle bombe atomiche della Seconda Guerra Mondiale, in circa 40 anni aveva raggiunto il secondo PIL del pianeta e consegnato la prima busta salariale al mondo. Era quindi il momento in cui il Giappone doveva ripensare la sua struttura politico-sociale. Per me era quindi interessante dare a un lavoro fotografico il nome di qualcosa che fosse invece virtuale, che non si può cioè toccare.

È inutile negarlo, il tuo stile fotografico è decisamente atipico. Riusciresti a sintetizzarlo in poche righe?
Potrei usare la parola “artista”. Considerato nella sua semplicità e complessità, il termine definisce il lavoro che cerco di fare. Oggi, chi lavora all'interno dell'arte contemporanea, può considerarsi un osservatore asistematico, nel senso che continuamente cambia gli strumenti della sua osservazione. Credo infatti che gli artisti contemporanei vadano oltre le comuni definizione di genere, vedi il pittore, lo scultore e via dicendo.
L'artista è prevalentemente un osservatore, un intellettuale che preleva dall'articolato cesto dei dispositivi, quello che più di altri gli consente di analizzare le storie e i fenomeni, ma anche di costruire un linguaggio comprensibile alle persone che si spera di raggiungere.
Per quanto mi riguarda, offro contenuti di antropologia urbana, quindi osservo il paesaggio urbano e quello umano, con tutto il sistema di equilibri e relazioni reciproche che ne deriva. Sul piano formale sono invece un artista visuale, lavorando con strumenti che appartengono alla cultura visiva, quindi con macchine fotografiche, strumenti di ripresa ma anche con la scrittura. Il fulcro del mio lavoro è in sostanza la rappresentazione visiva, fotografica o filmica, dei contesti.

Vorrei capire meglio. Se qualcuno ti chiede che mestiere fai, tu cosa rispondi?
Questa è una domanda molto interessante. Non so dirti per quale motivo, ma provo, al di fuori del contesto di lavoro quindi del mio habitat, una sorta di strano pudore nel definirmi... artista. Forse rispondere dicendo che sono fotografo oppure architetto, avendo un laurea in architettura (ma non praticando la professione), è un modo per evadere il rischio di dover spiegare nel dettaglio cosa sia il lavoro di artista. A volte anche io faccio fatica a inquadrare il mio ruolo, essendo più teorico di un intellettuale e più pragmatico di un artigiano.

È una mia impressione o non ami le vie di mezzo? Bianco e nero, “pietre” e uomo...
Sì, assolutamente. Vivo in questo una specie di disagio italiano e, pur amando il mio paese, provo una difficoltà enorme a convivere con l'abitudine degli italiani a lasciar correre. Gli italiani hanno incredibilmente alzato la loro soglia di tolleranza e assuefazione nei confronti di tutto. Vedi, a volte penso che la causa di ciò che ogni giorno siamo costretti a sentire, non risieda tanto nei politici, ma in noi italiani. E uno dei ruoli di un artista e di un fotografo credo sia prendere una posizione netta ed essere coerente con i propri atteggiamenti.

Perché hai scelto Milano come tua installazione principale?
Per ambizione e per pigrizia. Per ambizione perché a Napoli – il sottoscritto è napoletano di origine – non c'erano le condizioni per svolgere questo lavoro, vuoi per una questione economica, vuoi culturale, vuoi ancora per la difficoltà di stare nettamente da una parte. Per pigrizia perché Milano circa dieci anni fa mi è sembrata il giusto equilibrio fra il desiderio di vivere in Italia e il bisogno di stare in un luogo che fosse una sorta di porto di mare. Milano non è un posto bello, ma era e rimane una grande sala d'attesa aeroportuale. Devo inoltre ammettere che le persone che la abitano sono spesso molto interessanti.
Trovi che la città sia un ottimo terreno ispiratore per i tuoi lavori?
Più che in Milano, è nell'Italia che trovo ispirazione anche se, paradossalmente, di rado ottengo delle commissioni italiane. E... voglio dire... l'ispirazione può portare anche a un contro-progetto, nel senso che l'Italia spesso rappresenta un modello da non emulare.

Perché scarseggiano le commissioni in Italia?
Credo dipenda dal fatto che il mio lavoro, che da qualche anno ha assunto una connotazione fortemente geopolitica, faccia parte di una nicchia dell'arte contemporanea in Italia poco coltivata, molto seguita ma con pochi sbocci sul mercato. Sarà anche una questione culturale: malgrado esponga in diversi paesi del mondo, compreso il Museo Del Prado di Madrid, i miei lavori in Italia forse non sono compresi e apprezzati. Una posizione ovviamente da rispettare. Chissà, in futuro, forse ci saranno delle opportunità.

Da cosa nasce l'esigenza di filmare?
Preferisco il video alla fotografia quando mi accorgo che la complessità del racconto è tale da stare a fatica dentro una cornice. Ti faccio un esempio: fra i momenti più significativi della mia vita artistica c'è senza dubbio l'inaugurazione recente di una mostra personale al già citato Museo Nazionale Del Prado di Madrid. Oltre a presentare le mie fotografie, avevo voglia di indagare e realizzare un atlante visivo del pubblico del Museo. Qualcosa che mostrasse anche cosa vive dietro una realtà artistica e culturale di simile portata. Ho quindi allestito una video-installazione con cinque grandi proiezioni interne ed esterne, raffiguranti poco meno di cinquecento ritratti di visitatori, in Full HD e in scala 1:1. Neozelandesi, australiani, giapponese, cinesi e quant'altro. Questa complessità all'interno di una fotografia non ci poteva stare.

Cosa pensi della facilità con cui oggi tutti scattano fotografie? Ciò procede parallelamente con la diffusione della cultura fotografica?
Questa è una domanda interessante e importante su cui potremmo discutere ad oltranza. Personalmente ritengo che la democratizzazione della fotografia, quindi il fenomenale tsunami che ha investito la società con l'avvento del digitale, siano due aspetti da considerare positivi. E penso che l'atteggiamento reazionario mostrato da una certa frangia di fotografi tradizionali non porti a nulla di buono: il fenomeno va interpretato come qualcosa su cui e con cui lavorare, non come un continuo sottrarre lavoro a chi di fotografia deve vivere. Perché se è vero che la ragazzetta che carica fotografie su Facebook sa poco o nulla di un JPG, di un sensore o di un obiettivo, è anche vero che sa perfettamente ciò che vuole fare della fotografia. A ciò si deve prestare molta attenzione.
Non posso accettare, per fare un esempio, che un musicista classico definisca “non musica” quella prodotta da un gruppo moderno solo perché utilizza strumenti elettronici e via dicendo. È inutile difendere posizioni vetero-culturali. Oggi è importante per un fotografo avere un potere previsionale e non uno reazionario. Chi non ha un carattere progressista, è bene che cambi mestiere. A me piacerebbe molto essere convocato da una grande casa come Nikon per la preparazione di un workshop vertente sull'evoluzione del linguaggio e del modo in cui oggi si consuma la fotografia rispetto al passato. I brand fotografici d'altronde dovrebbero fare attenzione ai giovanissimi che scattano semplicemente per postare su Facebook, perché fra questi si trovano i grandi registi e i fotografi di domani.

Se fossi un alimento, in cosa ti identificheresti?
In un non-alimento, quindi nell'acqua. L'acqua è trasparente, inarrestabile, è una forza della natura. E può trasportare di tutto, benefici ma anche virus e parassiti. E questo è uno dei compiti dell'arte.

Ti sei mai sentito privato d'ispirazione?
Purtroppo no, perché le cose che vorrei fare e i progetti che ho in mente sono costantemente in lotta con una delle più preziose risorse di questo secolo, il tempo, e in contemporanea con l'economia. I progetti sono sempre commisurati e ridotti alle necessità temporali ed economiche.

C'è un ramo della fotografia per il quale provi poco interesse? Moda, sport, etc...
Dunque, a me interessa quasi tutto, dalla semplice fototessera alla fotografia ottenuta con la macchina usa e getta, fino alla foto sexy che scattiamo alla fidanzata quando, a testa in giù, è legata al lampadario. Non mi interessa invece il reportage, né la fotografia di guerra.
Il reportage trovo che sia un grande equivoco, un modo di fare fotografia un po' faceto. Non ammetto che il fotografo rincorra continuamente eventi morti, inondandoci di immagini drammatiche che ritraggono persone in fin di vita, bambini di colore malnutriti su sfondo bianco opportunamente allestito e via dicendo.
Al tempo stesso non esistono fotografi che vadano a catturare immagini durante le cene elettorali che si svolgono sul Treno Bush. I fotografi di reportage sono per certi versi simili a chi fa volontariato, dato che puntano a edulcorare gli effetti e non a prevenire le cause. Mi rendo conto che spesso dico cose che potrebbero suscitare grande scandalo in virtù di uno pseudomoralismo tutto italiano secondo cui non si può parlare male di chi fa del bene. Il punto è che il reportage, dal mio punto di vista, non fa affatto del bene, anzi. Personalmente non ammetto fondamentalismi, poiché ritengo che nella cultura nulla sia intoccabile. Guardatevi quindi dal reportage, sempre!


fonte: nital

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